di Emma Crescenti
Da tempo l’avevamo inserita nella “to do”, anzi “to see list”. Le vedute di Curon e del suo campanile sommerso, che spicca dalle acque pacifiche del lago di Resia, sono un richiamo irresistibile per chiunque ami la montagna, il panorama e il folklore del Trentino Alto Adige. Quando poi ha debuttato sul piccolo schermo nella serie tv Curon, piccolo gioiello dell’horror/mistery italiano distribuita su netflix nel 2020 (per chi non l’ha ancora vista, è tempo di farlo!) la curiosità è schizzata alle stelle.

In perfetto Alberto Angela’s style partiamo con un po’ di divulgazione. Perché dietro l’immagine da cartolina, dietro la cuspide che ha regalato al borgo fama e notorietà, c’è una storia che di idilliaco ha ben poco: è così immergendosi nel lago, dove riposa ciò che resta della vecchia Curon, si scopre che dietro la fiaba si nasconde la cruda realtà dove il “bad guy” è il progresso e la sua vittima una comunità costretta a ricostruirsi altrove, seppur solo qualche metro più in là.
Il campanile di Resia: come nasce la leggenda
Il lago di Resia, come lo conosciamo ora, è frutto dell’unione di due laghi: quello di Resia, per l’appunto, e quello di Curon. Nel 1939, cavalcando la spinta nella produzione di energia idroelettrica, avviata dal Governo già dagli anni Venti, al consorzio Montecatini fu dato il nulla osta per la realizzazione di una diga che avrebbe innalzato il livello delle acque di 22 metri, sommergendo di fatto l’antico abitato di Curon e parte di quello di Resia. Congelati dalla Seconda Guerra Mondiale, i lavori ripresero nel 1947: a nulla servirono le proteste degli abitanti dei due borghi contrari ad abbandonare le proprie case. Nel giro si tre anni decine e decine di case furono demolite con l’esplosivo prima che la conca fosse completamente allagata, mentre il paese fu ricostruita più a monte, rinominata Curon Venosta: unico sopravvissuto fu il campanile trecentesco della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria.
Testimone della storia e delle trasformazioni delle valle, la torre è al centro anche di molte leggende. Una di questa racconta che nelle notti d’inverno, quando il vento soffia sul lago ghiacciato, si sentano suonare le campane del campanine. Campane che, però, furono rimosse nel 1959.
Una giornata fra Curon e Resia

Seguendo la voce delle campane siamo arrivati sul lago di Resia a inizio febbraio, ospiti dell’Hotel Alpenjuwel di Melago, l’ultima frazione di Curon Venosta, quasi al confine con l’Austria. Stanza e bagno erano piccoli ma accoglienti, ottima invece la scelta delle mezza pensione con colazione a buffet e una cena gourmet di cinque portate che, lo ammettiamo, ci ha lasciato davvero stupiti: caro chef, per la tua cucina altoatesina il voto è “diesci”. Per rilassarsi la struttura ospita anche una piscina con idromassaggio e una piccola sauna.
Il sabato inizia presto e non ci scoraggiano nemmeno i -17 gradi che come aghi iniziano a pungere una volta lasciato l’hotel di prima mattina. Armati di guanti e doppia calza, affrontiamo la discesa verso il centro di Curon, per poi parcheggiare a pochi passi dal grande parco. Da lì parte una breve passeggiata e superata la collina su cui sorge la chiesetta di Sant’Anna la vista si apre sul campanile sommerso: una visione tanto suggestiva d’estate, ancor più d’inverno quando il lago completamente ghiacciato quasi ti invita ad avvicinarti per toccare con mano la leggenda. Venti metri più sotto, per i resti del vecchio borgo il tempo si è fermato agli anni Cinquanta. La vista è più che suggestiva, le gambe ci portano verso l’interno del lago per scattare foto d’effetto che però non rendono giustizia al panorama. Siamo solo due puntini in mezzo a un’immensa coltre bianca, abbracciata dai monti e sporcata solo dalle scie di chi, il giorno prima, aveva sfrecciato sul lago facendo kitesurf. Una magia che lascia senza parole finché, notata una crepa nel ghiaccio, spuntano i brividi (non di freddo) e in fretta e furia riguadagno la sponda del lago. Daniele mi segue, scuotendo la testa rassegnato.
La tappa è successiva è la frazione di Resia, che come Curon e le altre località della valle vive soprattutto di turismo, pastoria e dell’industria del legname. Lungo la via si aprono soprattutto alberghi e negozi tipici, da cui usciamo carichi di speck e Lagrein, “il miglior vino rosso di questa zona”, commenta l’amico commerciante con un sorriso e un marcato accento tedesco. Poi tappa al Mein Dörfl, il ristorante affacciato sul lago, per un pranzo a base di birra e canederli, la piccola escursione fino alle sorgenti dell’Adifg e un giro del lago e una tazza di cioccolata, finché il sole non sparisce dietro le montagne, il segno che è tempo di rientrare.
Tappa a Burgusio, Glorenza e Merano
La domenica il tragitto verso casa è scandito da una serie di tappe a ritroso lungo la Val Venosta.

A Burgusio, frazione di Malles Venosta, il castello medievale del principe racconta una storia cominciata alla fine 1200 e mai conclusa: più volte restaurata, la rocca nel corso dei secoli è stata adibita alle più disparate attività, da tribunale a ricovero di fortuna, da caserma e prigione a fabbrica di birra fino a diventare la sede di una scuola professionale per l’agricoltura di lingua tedesca.

Poco più sù, sentinella della cittadina è l’abbazia di Monte Maria, monastero benedettino che sorge a 1.335 metri intorno al quale si estendono i vigneti più alti del nord Europa e il Sentiero delle Ore, patrimonio culturale dell’Unesco.
Piccolo gioiello dell’architettura tardo-medievale è invece Glorenza, dove veniamo accolti in pompa magna con tanto di banda e rievocazione storica. Considerato uno dei borghi più belli d’Italia ebbe un ruolo da protagonista durante la Seconda Guerra Mondiale, in quanto fu costruito un sbarramento per impedire al nemico di invadere il territorio dal Passo di Resia. Ultima tappa invece a Merano, a chiederlo è stata la pancia: ci ricarichiamo con stinco e birra al Forserbrau, prima di tirare verso casa.
E’ stato bello, anzi bellissimo. I paesaggi da sogno dell’Alto Adige sono scolpiti nella mente, così come il campanile e la triste storia di Curon. Sicuramente ci torneremo: quando, sciolto il ghiaccio, la valle e i suoi borghi torneranno a fiorire.